Intellettuale
Il termine intellettuale deriva dal tardo latino intellectualis, aggettivo che vuole indicare ciò che in filosofia riguarda l'intelletto nella sua attività teoretica e si caratterizza perciò come separato dalla sensibilità e dall'esperienza giudicata di grado conoscitivo inferiore. Nella concezione aristotelica erano definite intellettuali quelle virtù come scienza, sapienza, intelligenza e arte che consentivano all'anima intellettiva di raggiungere la verità. Nel campo della metafisica il termine stava poi ad indicare l'astrattezza, in contrapposizione alla concretezza e alla materialità.
Origine del termine
Il termine “intellettuale” fino al settecento era stato sempre usato in senso aggettivale, non quale sostantivo, come oggi viene normalmente adoperato. "Furono gli illuministi francesi a propiziare questo nuovo uso del termine, a partire da Diderot, il quale, nella sua celebre Lettre sur la liberté de la presse, segna probabilmente il transito dal clericus tardo medievale all’intellettuale in senso moderno"[1]. Eppure ancora nel 1753 il suo co-editore D'Alambert, nell'affrontare il tema, preferisce intitolare il saggio Essai sur les gens de lettres con l'utilizzo del precedente termine: "letterati"[2].
Concezione e funzione storica dell'intellettuale
Sembra che il termine intellighenzia fosse già usato in Russia nel XVIII secolo, originato dalla traduzione della parola francese "intelligence", ed era riferito agli intellettuali di origine nobile che occupavano incarichi pubblici. Nel corso del XIX secolo venne riferito indifferentemente a tutta la classe colta della popolazione, distinguendo tuttavia gli intellettuali non nobili o declassati con il termine di Raznočincy (Разночинцы), letteralmente gente comune.[3]
Il termine Intelligencija appare nei diari datati 1836 del russo Vasilij Andreevič Žukovskij, ma fu reso popolare dal filosofo polacco Karol Libelt dopo la pubblicazione nel 1844 del suo libro O miłości ojczyzny (L'amor di patria) e soprattutto dallo scrittore e giornalista russo Pëtr Dmitrievič Boborykin (1836–1922), che l'utilizzò nella sua rivista « Biblioteca per la lettura » (Библиотека для чтения, Biblioteka dlja čtenija), affermando di averlo tratto dal tedesco, e rese protagoniste dei suoi romanzi molte figure di intellettuali. Il lemma ebbe ampia diffusione con le opere del romanziere Ivan Turgenev.[4]
Il termine - già in uso in Francia nel penultimo decennio dell'Ottocento, nella critica letteraria[5] - ebbe poi diffusione nel 1898 grazie al Manifeste des intellectuels, pubblicato dal quotidiano parigino L'Aurore da un giornalista divenuto poi primo ministro: Georges Clemenceau, il quale, intervenendo al fianco di Émile Zola nel suo atto d'accusa alla politica francese, introdusse il termine intellectuels per designare i sostenitori dell'innocenza di Alfred Dreyfus. Da quel momento il sintagma - utilizzato anche dalla controparte per indicare i "pedanti presuntuosi, che si ritengono l'aristocrazia dello spirito e che hanno perduto tutti, chi più chi meno, la mentalità nazionale"[6] - connotò un acceso dibattito politico sulla funzione dei letterati nella società[4].
Successivamente l'uso della parola si è esteso in gran parte del mondo e in diverse lingue per indicare il gruppo che ha la superiorità intellettuale o, a volte ironicamente, che ritiene di averla.
La funzione sociale
Il problema storico della funzione sociale degli intellettuali era in effetti già presente in passato ogni qual volta si facevano appelli alla mobilitazione e all'impegno politico degli intellettuali di cui si chiedeva la guida o la collaborazione ai processi di riforma e di rinnovamento politico oppure quando, con il progresso scientifico, si era posto il problema sulla funzione civile della ricerca scientifica; questo ruolo è evoluto in quello dei moderni creatori dell'opinione pubblica (opinion makers) [7].
Il termine intellettuale in questo periodo comincia ad acquistare anche connotazioni negative riferito a colui che rifiuta i valori della fantasia e dei sentimenti o a chi si compiace di considerazioni artificiose e cerebrali che acquistano tanto più importanza quanto più lontane dalla realtà: è questo quello che viene definito intellettualismo.
Dall'Illuminismo all'engagement esistenzialista
I primi intellettuali, uomini di cultura al passo con i loro tempi che sentirono la necessità di impegnarsi in una causa civile furono gli illuministi del XVIII secolo, periodo in cui cominciò a formarsi l'opinione pubblica che modificò il ruolo sociale degli uomini di cultura mettendoli in contatto con i fruitori del loro pensiero. In quel periodo gli intellettuali acquisirono i caratteri tipici dei portavoce del dissenso, rivolto verso qualunque tipo di autorità, e dei progressismi, che li accompagneranno fino ai nostri giorni.[8]
Così Kant insisteva sulla funzione pubblica dell'intellettuale ma sentiva la necessità di distinguere tra l'uso privato" e l'"uso pubblico" della ragione, intendendo, in questa seconda accezione, il rapporto che doveva instaurarsi tra l'intellettuale e "il pubblico dei suoi lettori" nei confronti dei quali il filosofo poteva ritenersi assolutamente libero nell'esporre le proprie convinzioni e il proprio pensiero anche critico nei confronti delle istituzioni.
Nel positivismo il ruolo degli intellettuali consiste soprattutto in una rigorosa difesa dell'indipendenza della scienza da ogni intromissione che la renda "serva o cortigiana" come già diceva Bacone.
Nella seconda parte dell'Ottocento, gli intellettuali venivano identificati con quei "letterati" promotori del dissenso, del cambiamento.
Di fronte però alla affermazione delle dittature del secolo XX si innescò un lungo e acceso dibattito sul "tradimento degli intellettuali" (Julien Benda, Johan Huizinga) che avrebbero rinnegato la loro connaturata cultura razionalista subendo il fascino di miti irrazionali di potenza.
Tema questo trattato anche da Benedetto Croce che identificava nel 1866, l'annus mirabilis della vittoria prussiana, la frattura tra la prima metà dell '800, caratterizzata dal sano razionalismo idealistico, e la seconda metà del secolo, in cui, di fronte al cinico pragmatismo e al successo della politica bismarchiana, ci fu uno smarrimento dei valori intellettuali liberali e il prevalere di forze istintive ed irrazionali che avrebbero portato alla nascita dei regimi fascisti.
Antonio Gramsci distingue, fra gli intellettuali, gli "intellettuali organici" e specifica la loro funzione essenziale nella costruzione dell'egemonia culturale. In un contesto rivoluzionario, nella prassi politica, questi si sarebbero dovuti schierare nella lotta di classe al servizio del riscatto del proletariato.
Il tema dell'"engagement",[9] dell'impegno degli intellettuali, fu ripreso nel secondo dopoguerra dalla corrente esistenzialistica (Jean Paul Sartre) pur con una difesa dell'autonomia da ogni condizionamento dai partiti organizzati in nome della irrinunciabile libertà di critica (Max Weber, Karl Mannheim, Edmund Burke).
Molto critico con gli intellettuali di sinistra Raymond Aron con il suo L'oppio degli intellettuali del 1955. Altrettanto caustico il giudizio, tutto sommato positivo, di Ralf Dahrendorf: “come il giullare di corte della società moderna, tutti gli intellettuali hanno il dovere di dubitare di ciò che appare ovvio agli altri, di rendere relativa ogni autorità, di avanzare tutte quelle domande che nessun altro oserebbe rivolgere"[10].
Gli intellettuali italiani e la società di massa
Da un punto di vista sociologico si è assistito alla identificazione progressiva degli intellettuali come un gruppo sociale autonomo e strutturato, con proprie regole e modalità di selezione e conservazione.[11] La diffusione progressiva dell'istruzione e della cultura nei secoli XIX e XX ha aumentato il numero delle professioni intellettuali, ma non ha sostanzialmente mutato il rapporto tra gli intellettuali e le masse. Certamente è aumentata però l'influenza degli intellettuali nella società di massa moderna, soprattutto grazie dalla imponente crescita dei mezzi di comunicazione.
In Italia nell'ultimo scorcio del XX secolo è stato il letterato e poeta Pier Paolo Pasolini a mettere in evidenza come le classi subordinate, quelle che una volta costituivano il proletariato, si fossero giovate dello sviluppo economico del paese uscendo dalla povertà e dall'ignoranza ma fossero rimaste sostanzialmente fuori da una reale partecipazione alla vita pubblica, essendo ancora prive degli strumenti culturali per la comprensione della realtà sociale in cui vivevano. Egli d'altra parte metteva anche in rilievo come i rappresentanti della cultura alta e raffinata alla fine s'impegnassero in una critica sterile ed astratta chiudendosi in una sorta di casta e assumendo un ruolo conservatore, poiché vedevano nella società attuale solo connotazioni negative e lasciandosi andare al continuo rimpianto di una mitica "età dell'oro" ormai trascorsa.[12]
La condanna politica della cultura degli anni trenta
Nell'immediato dopoguerra il Partito comunista italiano era un grande partito di massa ed era quindi inevitabile che gli intellettuali impegnati nella Sinistra si ponessero il problema del loro ruolo nei confronti della società.
A questo si rivolse l'impegno diretto di Palmiro Togliatti [13], volto alla «caduta del diaframma tra l’agire culturale e l’agire politico» mediante «un processo che porta alla trasformazione del pensatore in dirigente, in rivoluzionario di professione, modificandone la funzione in un senso totalizzante che richiede l’umile impegno nelle sezioni, l’assorbimento di ogni spazio individuale e la sottomissione alla rigida disciplina di partito»
Sul «modello plasmato da Togliatti, soprattutto nella promozione del pensiero di Antonio Gramsci, (...) convergono intellettuali provenienti da mondi diversi, da quello cattolico, come Franco Rodano, Luca Pavolini, Luciano Barca, Felice Balbo, Antonio Tatò, a quello di un’area laica proveniente in larga parte dalla diaspora azionista, come nel caso del critico letterario Carlo Muscetta o degli storici Paolo Alatri, Giorgio Candeloro e Roberto Battaglia»; in questa seconda «area si collocano progetti editoriali come Il Ponte di Piero Calamandrei, Lo Stato moderno di Mario Paggi, Il Mondo di Alessandro Bonsanti, Arturo Loria e Eugenio Montale»[14].
Tutta la produzione letteraria degli anni '30 appariva - agli occhi di questi intellettuali "impegnati", come allora si diceva - una sorta di arcadia quanto mai lontana dalla realtà. Quella letteratura passata aveva soprattutto l'onta di essere stata partecipe, sostenitrice e complice interessata del regime fascista nella repressione della libertà. Anche se da parte di alcuni si faceva notare che si doveva giudicare positivamente anche l'assenza e il non coinvolgimento con il fascismo, da parte di quei molti letterati che si erano messi in disparte, il giudizio complessivo della sinistra intellettuale fu di condanna nei confronti della cultura passata: ciò proprio secondo i canoni di impegno, affermatisi alla luce delle tristi e terribili vicende della guerra ormai da poco trascorsa. Si chiedeva a tutti di coraggiosamente opporsi alla tentazione del ripiegamento, a fronte di un popolo che aveva partecipato alla Resistenza guadagnandosi la libertà e la speranza di un rinnovamento politico e sociale ma che invece continuava a soffrire miseria e ingiustizia.
Note
- ↑ Vincenzo Vitale, «Dreyfus è innocente!» Così Zola inventò l’intellettuale moderno, Il Dubbio, 7 agosto 2018.
- ↑ Il termine "uomo di lettere" o "letterato" (derivante dal termine francese belletrist o homme de lettres) dai tempi del Rinascimento (v. la Respublica literaria citata nella lettera di Francesco Barbaro a Poggio Bracciolini del 6 luglio 1417) e di Pierre Bayle (la sua Nouvelles de la République des Lettres è del 1684) si riferiva a un uomo alfabetizzato, partecipe dei salotti letterari, diventati un'istituzione sociale pensata per l'edificazione, l'educazione e il perfezionamento culturale di coloro che fossero in grado di leggere e scrivere divenuta nel tempo un fenomeno intellettualistico di moda tra le classi alte.
- ↑ Secondo alcuni sociologi all'interno della intellighenzia possiamo quindi inserire gli intellettuali, ma anche i dirigenti, i funzionari dell'amministrazione pubblica, i politici, i medici ecc., mentre secondo l'opinione di altri sociologi vanno annoverati solo gli intellettuali in senso stretto. (in Sociologia dell'economia e del lavoro, di Luciano Gallino, Utet, Torino, 1989, p. 209, voce "Intellighenzia")
- ↑ 4,0 4,1 Template:Treccani
- ↑ Trevor Field, Vers une nouvelle datation du substantif intellectuel, in Travaux de linguistique et de littérature, 1976, libro 14, no 2, pp. 159-167
- ↑ Maurice Paleologue, Journal de l'affaire Dreyfus, Plon, 1955, p. 236.
- ↑ Jerome Braun (auth.), Democratic Culture and Moral Character: A Study in Culture and Personality [1 ed.], 978-94-007-6753-9, 978-94-007-6754-6 Springer Netherlands 2013, pagine 200 e seguenti.
- ↑ Cf. Luciano Gallino, Sociologia dell'economia e del lavoro, Utet, Torino, 1989, p. 204, voce "Intellettuale".
- ↑ Template:Treccani
- ↑ Ralf Dahrendorf, Der Intellektuelle und die Gesellschaft, Die Zeit, 20 March 1963, ristampato in The Intellectual and Society, in On Intellectuals, ed. Philip Rieff, Garden city, N.Y., 1969, p. 51.
- ↑ P. Battista, "Il partito degli intellettuali. Cultura e ideologie nell'Italia contemporanea", Bari 2001
- ↑ Dopo la guerra Pasolini, che era stato a lungo indeciso con quale ideologia politica schierarsi, osservando le nuove esigenze di giustizia che erano nate nel rapporto tra il padrone e le varie categorie di diseredati, scelse decisamente di aderire al movimento politico comunista. Il tema del rapporto tra gli intellettuali e il potere politico Pasolini lo aveva quindi affrontato già nell'immediato dopoguerra: infatti il 26 gennaio del 1947 aveva scritto sul quotidiano "Libertà" di Udine una dichiarazione che fece scalpore tra i politici comunisti che smentirono la sua iscrizione al PCI: «Noi, da parte nostra, siamo convinti che solo il comunismo attualmente sia in grado di fornire una nuova cultura "vera", una cultura che sia moralità, interpretazione intera dell'esistenza».
- ↑ Si tratta di un impegno che fu «condiviso con coloro che hanno già risolto il complesso edipico che li legava a Croce approdando negli anni trenta e quaranta a una coscienza antifascista e di classe [...] uomini di cultura come Mario Alicata, Pietro Ingrao, Paolo Bufalini, Pietro Amendola, Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Aldo Sanna, Antonello Trombadori, Renato Guttuso, Fabrizio Onori, Marco Cesarini, Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Valentino Gerratana, Gastone Manacorda, Massimo Aloisi, Giulio Cortini, Franco Ferri, Luigi Diemoz, Maurizio Ferrara, Girolamo Sotgiu, i fratelli Gianni, Massimo e Dario Puccini, Carlo Lizzani, Alfredo Reichlin e Luigi Pintor» intorno ai quali «...si forma il primo nucleo di intellettuali deciso a costruire una nuova figura dell’uomo di cultura, sostituendo il tradizionale accademico con il militante al servizio della causa socialista» (in: Simone Massacesi, Santarelli tra Gramsci e le intellettualità diffuse (1949-1961), Storia e problemi contemporanei : 58, 3, 2011, p. 48 (Bologna : CLUEB, 2011)
- ↑ Simone Massacesi, Op.cit. pp. 48-49.